Prima del Canto notturno (o forse anche in qualche pausa della sua lunga composizione) va molto probabilmente posto un breve componimento dal titolo Imitazione, che il Leopardi pubblicò solo nell’edizione Starita del 1835, in appendice ai canti piú importanti. Si tratta di un rifacimento di La feuille, una poesia dello scrittore francese Antoine-Vincent Arnault (1766-1834), che il Leopardi doveva aver letto già nella sua prima gioventú nello Spettatore italiano dove venne pubblicata nel 1818. Questo indusse gli interpreti ottocenteschi a datare a quell’anno questa poesia, ma già il Carducci per ragioni metriche e formali ebbe dei dubbi in proposito, dubbi poi ripresi da studiosi piú recenti come Angelo Monteverdi[1], che preferiscono una collocazione nella zona dei canti pisano-recanatesi.
E in effetti, mentre comunque essa appartiene, per l’uso della strofa libera, al periodo pisano-recanatese, per certe forme e movimenti è vicinissima al Canto notturno. L’immagine «Povera foglia frale» (che si distacca dal testo francese dove si diceva: «povera foglia disseccata») contiene una delle parole fondamentali del Canto notturno, a indicare la fragilità, la fralezza della vita umana; i versi «Seco perpetuamente / vo pellegrina» richiamano alcuni versi della quarta strofa dello stesso canto; la stessa iniziale forma di interrogazione che dà avvio a questo componimento poetico, contraddistinto soprattutto dal suo gusto di melodia e di disegno malinconico, riporta al Canto notturno:
Lungi dal proprio ramo,
povera foglia frale,
dove vai tu? – Dal faggio
là dov’io nacqui, mi divise il vento.
Esso, tornando, a volo
dal bosco alla campagna,
dalla valle mi porta alla montagna.
Seco perpetuamente
vo pellegrina, e tutto l’altro ignoro.
Vo dove ogni altra cosa,
dove naturalmente
va la foglia di rosa,
e la foglia d’alloro.[2]
Il componimento francese conteneva naturalmente queste immagini e il tema fondamentale della leggerezza e caducità della foglia che allude alla vanità di tutte le cose; ma il Leopardi vi ha pur aggiunto qualcosa di suo; per esempio, nel particolare «là dov’io nacqui», che sembra comportare una certa umanizzazione nel paragone implicito tra foglia e umanità, oppure nei versi «Seco perpetuamente / vo pellegrina» che nel testo francese mancavano e soprattutto coll’aggiunta nel terzultimo verso di quel «naturalmente» (cioè la foglia va per legge e volere della crudele natura), dove è implicito una specie di lamento, di sfumatura malinconica.
Al di là di questa breve poesia, Leopardi attese per un periodo estremamente lungo (dal 22 ottobre del ’29 al 9 aprile del ’30) alla composizione del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia[3] con il quale concluse il periodo recanatese e in certo modo prese commiato da esso. Dopo questo canto infatti la poesia leopardiana si muove verso forme assai diverse, come si può vedere ad esempio confrontando la domanda iniziale del Canto notturno con l’avvio del Pensiero dominante, la poesia che inizia il nuovo periodo. Nel Pensiero dominante[4] si avverte tutta un’altra impostazione, tutto un altro ritmo, forte ed energico, non cadenzato e blando come nel Canto notturno, dove anche le domande e le verità piú terribili sulla condizione drammatica dell’uomo sono contenute entro le forme misurate e melodiche (malgrado la ricchezza nuova e piú intensa di grandi motivi che questo canto contiene, al di là dell’impostazione della Quiete e del Sabato) della direzione fondamentale della poetica dei grandi idilli.
In questo canto vengono portati piú direttamente avanti i grandi temi della concezione leopardiana della vita, la tragicità e sofferenza di essa, la crudeltà della natura, che salivano dalla lunga meditazione dello Zibaldone e delle Operette morali. L’ultima parlata dell’Islandese, nel Dialogo della Natura e di un Islandese, atteggiata in forma di domanda alla natura, richiama certe forme interrogative del Canto notturno, anche se sempre piú morbide e meno impetuose. Diceva infatti l’Islandese, dopo aver accettato la legge materialistica che la natura gli aveva esposto: «Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?»[5].
È evidente che Leopardi ha riattinto nel Canto notturno alle soluzioni delle Operette morali, e in particolare alla conclusione tragica del dialogo ricordato e d’altra parte ha risentito direttamente la spinta di alcuni pensieri che proprio in questo periodo veniva segnando nello Zibaldone sulla natura, sul mondo e sull’ordine delle cose.
In uno del 2 gennaio 1829, giustificando la sua filosofia dall’accusa di misantropia, dopo aver osservato che essa semmai, attribuendo ogni colpa alla natura, conduceva a liberare gli uomini dall’odio fra di loro, il Leopardi concludeva: «La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio piú alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi» [4428][6].
Pensando al Canto notturno, è assai significativo, in questa chiarificazione leopardiana della natura effettiva della sua filosofia, quell’inciso («o se non altro il lamento»), perché questo canto è appunto costruito come un alto lamento anche nelle sue stesse forme poetiche e musicali, come una specie di “nenia”, di lagnanza che il pastore rivolge alla luna sul perché delle cose, del male del mondo e degli uomini. Questa precisa identificazione della vera fonte dei mali umani è d’altra parte ancora ribadita in un altro pensiero dell’11 aprile:
La natura, per necessità della legge di distruzione e riproduzione, e per conservare lo stato attuale dell’universo, è essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gl’individui d’ogni genere e specie, ch’ella dà in luce; e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui gli ha prodotti. Ciò, essendo necessaria conseguenza dell’ordine attuale delle cose, non dà una grande idea dell’intelletto di chi è o fu autore di tale ordine. [4485-4486][7]
Qui (a parte la riconferma, nella forma cosí fredda e distaccata di questo pensiero, della posizione antiteistica del Leopardi che, vedendo come nell’ordine delle cose è insito il male, la sofferenza, senza posto alcuno per la felicità, trae la conseguenza che anche l’autore di esso, sia Dio o la natura, dà molto a pensare sulla sua stessa intelligenza), è notevole l’insistenza sulla persecuzione della natura a danno degli uomini fin dal momento della nascita; tema che sarà enunciato nella terza strofa del Canto notturno: il nascere di per sé è già una pena e l’inizio delle sofferenze dell’uomo.
Un altro pensiero del 4 maggio, riprendendo il motivo settecentesco della somma dei piaceri e dei dolori su cui Leopardi aveva a lungo meditato, svolge il tema della noia, del tedio, che tornerà in forme apparentemente piú ingenue nella strofa quinta del Canto notturno:
L’assenza di ogni special sentimento di male e di bene, ch’è lo stato piú ordinario della vita, non è né indifferente, né bene, né piacere, ma dolore e male. Ciò solo, quando d’altronde i mali non fossero piú che i beni, né maggiori di essi, basterebbe a piegare incomparabilmente la bilancia della vita e della sorte umana dal lato della infelicità. Quando l’uomo non ha sentimento di alcun bene o male particolare, sente in generale l’infelicità nativa dell’uomo, e questo è quel sentimento che si chiama noia. [4498][8]
Ancora nello Zibaldone, Leopardi spostando la sua attenzione sulla sensibilità, osserva:
La facoltà di sentire è ugualmente e indifferentemente disposta a sentir piaceri e dolori. Or le cose che producono le sensazioni del dolore, sono incomparabilmente piú che quelle del piacere. Dunque la facoltà di sentire è un male, per lo stato esistente delle cose, quando pur nol fosse per se. E quanto essa è maggiore, nella specie o nell’individuo, tanto quella o quello è piú infelice: e viceversa. Dunque l’uomo è l’ultimo nella scala degli esseri, se i gradi si calcolano dall’infelicità ec. ec. [4505-4506][9]
Anche questo è un tema che torna nel canto del pastore che, prima della conclusione piú generale, rileverà una maggiore infelicità nell’uomo rispetto ai bruti e agli animali. In un altro pensiero del 27 maggio, già ricordato ad altro proposito ma che può esser utile richiamare qui di nuovo, si insiste sul fatto che quella felicità che manca non è cosa secondaria perché il desiderio di essa è l’istinto fondamentale dell’uomo:
La natura non ci ha solamente dato il desiderio della felicità, ma il bisogno; vero bisogno, come quel di cibarsi. Perché chi non possiede la felicità, è infelice, come chi non ha di che cibarsi, patisce di fame. Or questo bisogno ella ci ha dato senza la possibilità di soddisfarlo, senza nemmeno aver posto la felicità nel mondo. Gli animali non han piú di noi, se non il patir meno; cosí i selvaggi: ma la felicità nessuno. [4517][10]
Sono affermazioni che rispetto al pensiero precedente sembrano graduarsi, come rispetto alla quinta strofa del Canto notturno si gradua la sesta e l’ultima, nel senso che, se pur gli animali appaiono meno infelici degli uomini a un grado assoluto, anch’essi tuttavia sono infelici come tutti gli esseri senzienti («dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dí natale» diranno gli ultimi versi di questo canto).
Infine, un pensiero estremamente importante e riassuntivo delle posizioni leopardiane è quello del 17 maggio 1829, in cui partendo dalla citazione di un pensiero di Rousseau alla cui filosofia della natura da giovane aveva aderito, Leopardi ne rifiuta decisamente la provvidenzialità e la benignità. A Rousseau, che si era rivolto all’uomo invitandolo a non cercare la causa del male che è in se stesso perché l’universo è ordine e nell’ordine non può esserci male, Leopardi risponde cosí:
Anzi appunto l’ordine che è nel mondo, e il veder che il male è nell’ordine, che esso ordine non potrebbe star senza il male, rende l’esistenza di questo inconcepibile. Animali destinati per nutrimento d’altre specie. Invidia ed odio ingenito de’ viventi verso i loro simili [...] Altri mali anche piú gravi ed essenziali da me notati altrove nel sistema della natura ec. Noi concepiamo piú facilmente de’ mali accidentali, che regolari e ordinarii. Se nel mondo vi fossero disordini, i mali sarebbero straordinarii, accidentali; noi diremmo: l’opera della natura è imperfetta, come son quelle dell’uomo; non diremmo: è cattiva. L’autrice del mondo ci apparirebbe una ragione e una potenza limitata: niente maraviglia; poiché il mondo stesso (dal qual solo, che è l’effetto, noi argomentiamo l’esistenza della causa) è limitato in ogni senso. Ma che epiteto dare a quella ragione e potenza che include il male nell’ordine, che fonda l’ordine nel male? Il disordine varrebbe assai meglio: esso è vario, mutabile; se oggi v’è del male, domani vi potrà esser del bene, esser tutto bene. Ma che sperare quando il male è ordinario? dico, in un ordine ove il male è essenziale? [4511][11]
Qui, in questa specie di prova di forza con Rousseau, Leopardi porta avanti la sua intuizione tragica e pessimistica della vita, fino a una delle sue estreme conseguenze: è chiamato in causa lo stesso ordine dell’universo e chi ne è o ne può essere l’autore, perché appunto esso è ordine e l’ordine in cui domina il male non può che essere cattivo, scellerato (come Leopardi dirà con espressioni piú accese in A se stesso e in altri componimenti dell’ultimo periodo della sua vita).
Piú che nelle altre poesie di questo periodo nel Canto notturno vengono a consolidarsi queste fondamentali verità leopardiane, anche se nella genesi di questo canto non è certo assente la spinta della memoria. Infatti la situazione del pastore, dell’uomo primitivo fuori della civiltà, si intreccia facilmente con il ricordo da parte del Leopardi della propria situazione personale, quando egli nella sua adolescenza aveva cominciato a porsi le stesse domande sulla vita e sull’universo che qui si pone il pastore. E da questo punto di vista si intende meglio la stessa presenza di ricordi di letture leopardiane che qui rifluiscono. Le pessimistiche sentenze del Libro di Giobbe, prive naturalmente dei loro esiti provvidenzialistici, sono state risentite in questo canto da Leopardi molto da vicino, anche attraverso la pressione che sulla sua memoria hanno esercitato queste letture di base che vennero ad aiutare il primo movimento della sua crisi; a parte il fatto che la stessa situazione dello scenario pastorale del Canto notturno poteva ritrovare consonanze adiuvanti nella situazione del mondo pastorale biblico. Né mancano altri echi di letture giovanili. Le Notti dello Young erano state presenti al giovane Leopardi già per la Storia dell’astronomia e nella traduzione in prosa che ne fece il Loschi si incontra un passo sulla sorte piú felice degli animali e su quella infelice di tutti gli uomini, che certo rifluí, per la genesi del Canto notturno, nella memoria attiva leopardiana: «Guida le tue greggie in un pascolo pingue: tu non le udrai belar mestamente [...] la pace, di cui godono esse, è negata ai lor padroni. Un tedio e una scontentezza, che non dà mai tregua, rode l’uomo e lo tormenta da mane a sera. Il Monarca e il pastore ugualmente si querelano della loro sorte»[12]. Qui persino certe situazioni, come l’identificazione della sorte del monarca e del pastore, sembrano avere avviato la figura leopardiana del pastore che è simbolo dell’uomo in generale. Né meno presenti furono i Canti di Ossian, da cui certamente Leopardi riprese, a suo modo naturalmente e seguendo la sua diversa poetica, quelle forme di meditazione dolente, cupa, e soprattutto quel modulo dell’interrogazione malinconica che non era un fatto semplicemente stilistico ma l’espressione di un’età di crisi quale fu il preromanticismo che si riconosceva piú in forme di dubbio e di domanda che di risposta e di affermazione. Si pensi a certe invocazioni alla luna, alle stelle dell’Ossian[13], opera che tra l’altro Leopardi accettava come traduzione di un poeta primitivo, quindi suggestiva per il Canto notturno, che vuol rappresentare il canto e il lamento di un’epoca primitiva.
Per la genesi di questo canto Leopardi ebbe poi uno stimolo immediato (ma legato a questa prospettiva che cercava di dar voce a verità fondamentali attraverso un personaggio primitivo) dalla lettura di una recensione, con riassunto, dell’opera di un viaggiatore russo, il barone di Meyendorff, di cui lo stesso Leopardi riporta queste parole: «passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes des airs qui ne le sont pas moins» [4400][14]. Questi canti tristi di pastori dell’Asia centrale fatti su musiche tristi contemplando la luna, avevano certamente la forza di precisare da vicino la situazione base del Canto notturno.
Rispetto ai personaggi storici e aristocratici che Leopardi aveva usato nel Bruto minore e nell’Ultimo canto di Saffo, il personaggio del pastore riprende e approfondisce la ricerca iniziata già nella Quiete e nel Sabato, dove il poeta aveva cercato di far scaturire certe sue verità dalla situazione concreta di personaggi umili, familiari, consueti. Sicché in questo personaggio primitivo, non mosso dalla cultura, le verità leopardiane vengono ad acquistare una convalida tanto maggiore perché diventano appunto verità di base che ogni uomo può svolgere da se stesso. Il pastore leopardiano (che certamente non ha nulla in comune con i pastori d’Arcadia, dove la vita pastorale veniva rappresentata come vita lieta, di riposo che di per sé porta la felicità) è il risultato di una profonda intuizione poetica, come l’espressione di quella voce della ragione primitiva, vergine e incolta, spontanea e non artefatta, su cui Leopardi piú volte aveva insistito all’interno dello Zibaldone e di cui possiamo ritrovare un accenno proprio in un pensiero di questo periodo, del 31 marzo 1829, dove è dato particolarmente valore a: «la ragione semplice, vergine e incolta, giudicata spessissime volte piú rettamente che la sapienza, cioè la ragione coltivata e addottrinata» [4478][15].
Le verità «disperate ma vere» (come Leopardi dirà piú tardi parlando della sua filosofia) che egli enuncia attraverso la voce del pastore hanno perciò una validità tanto piú sicura e maggiore e tanto meno intellettualistica che se fossero state espresse attraverso un personaggio filosofico. Sono verità di base, conclusioni (come quella della quarta strofa: «a me la vita è male», v. 104) basate sulla diretta esperienza, sul ricavo che la ragione «semplice» e «incolta» fa di una condizione che ogni uomo può vivere, senza bisogno di cultura, di civiltà. Cosí come la conclusione del canto («dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dí natale») che viene a espandere in senso universale la maledizione della vita, il senso dell’infelicità umana oltreché il tedio e la noia, è ricavata dal pastore dalla situazione elementare del rapporto tra se stesso e la greggia, dall’osservazione della quiete dei suoi animali in rapporto a se stesso.
Ugualmente l’altra verità tremenda che il pastore scopre nella seconda strofa (che la morte è un abisso orrido e immenso in cui il vecchio precipitando dimentica il dono fondamentale dell’uomo, la memoria), anche questa verità materialistica della morte come dimenticanza assoluta e spengimento totale, è ritrovata da una ragione primitiva che smentisce le asserzioni di chi ha indicato nell’idea dell’immortalità dell’anima un’idea naturale degli uomini.
Tutto ciò in questo canto viene a tradursi con una coerenza alta e sicura che nasce dalla corrispondenza della costruzione, del linguaggio, del paesaggio, dei moduli stilistici a questa impostazione fondamentale (anche se nella seconda strofa può avvertirsi un qualche appesantimento nella similitudine forse troppo abilmente letteraria tra il vecchio e la vita). È una poesia di domande e di amare scoperte ed è prospettata perciò nel modulo dell’interrogativo e poi delle brevi e amare constatazioni e nelle forme di dubbio, della cautela, dei “forse” e dei “se” che sono cosí fondamentali nell’ondeggiamento di questo canto che corrisponde proprio alle volute di un canto malinconico, di un lamento piú che di netta protesta (come invece saranno le poesie dell’ultimo periodo), di nenia (adoperando questa parola nel senso piú alto e anche ricordando quell’altissimo componimento dell’ultimo periodo di Brahms intitolato appunto Hänie). Questa specie di lamento, di alta nenia, è assecondato anche dalla stessa forma metrica che, come ha notato finemente Angelo Monteverdi[16], con il giuoco di rime e parole vicine (la rima finale in “ale” ritorna singolarmente in tutte le strofe), imprime una cadenza stanca, sconsolata, dolente. C’è come una certa monotonia, che però in questo canto non è affatto una qualità negativa perché traduce persino quel senso di monotonia da cui nasce il tedio e che si trova nello stesso paesaggio iniziale, dove la luna ritorna monotonamente sempre uguale come i giorni della vita del pastore. E si badi bene: la linea costruttiva, la metrica, il linguaggio non hanno nulla di improvvisato, di facilmente “popolare”; essi sono di fatto funzionali alla stessa alta semplicità della voce del pastore e della sua espressione poetica, frutto pur sempre di un’arte profonda, di un calcolo poetico profondo e coltissimo:
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale? (vv. 1-20)
È la prima strofa, di costruzione perfetta, in cui il Leopardi sulla domanda iniziale imposta la descrizione del viaggio notturno della luna, la sua somiglianza con il percorso della vita del pastore. È fondamentale in questo canto il ritorno di idee, intuizioni, immagini, parole chiave (lo scopo della vita e delle cose: «a che vale», «ove tende» e poi nella quarta strofa, ai vv. 97-98: «uso alcuno, alcun frutto / indovinar non so»; e la parola «vita» ritorna per ben quattro volte in questa strofa); proprio perché il pastore nella sua voce elementare, nella sua ragione vergine vuol bene sottolineare le domande e le verità essenziali. La poesia cioè non cerca tanto, come in altri casi, la varietà, ma cerca anzi la monotonia che si avvale, fin dall’avvio di questa strofa, di un ritmo lento di nenia e lamento, che si avverte anche nelle sfumature. Cosí si avverte sin l’importanza della virgola nel passaggio dal terzo al quarto verso («e vai, / contemplando i deserti»), la cui mancanza, oltre a portare anche a un senso piuttosto diverso, toglierebbe una pausa che sottolinea e asseconda un ritmo estremamente rallentato, pertinente a questa specie di lamento che si svolge tra l’altro su un paesaggio e in un’atmosfera silenziosi e desertici, certamente diversi da quelli usati dal Leopardi nelle altre poesie di questo stesso periodo. I termini con cui il pastore si rivolge alla luna, «silenziosa», «muta», «pensosa», oltre a indicare i modi mediante i quali il pastore nella sua posizione ingenua cerca di trovare una certa umanizzazione della luna stessa, un suo carattere malinconico (una variante del verso 99, poi rifiutata dal Leopardi perché questo carattere di malinconia era già suggerito in modo piú indiretto e piú vago dal clima generale della poesia, porta infatti: «malinconica luna»)[17], questi termini, dicevamo, con cui la luna viene chiamata, contribuiscono moltissimo a creare fin dall’inizio un’atmosfera raccolta, silenziosa, notturna e desertica. In questo canto non ci sono piú i piccoli personaggi della Quiete e del Sabato, la «piazzuola», e neppure gli «odorati colli», ma c’è un paesaggio sostanzialmente desertico, al massimo «fontane ed erbe», e uno sfondo celeste raccordato alla terra da un monotono e raccolto tono di silenzio solitario e notturno.
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e piú e piú s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale. (vv. 21-38)
Questa seconda strofa ha dato luogo a numerosi dissensi e a riserve, specialmente da parte del Russo che nel suo commento ai Canti ha osservato che la similitudine del vecchio e della vita dell’uomo ha qualcosa di faticoso e finisce per far apparire lievemente ridicolo questo «Vecchierel bianco, infermo» che poi compie prove da grande atleta in una specie di corsa a ostacoli. A parte questa aggiunta ironica e scherzosa del Russo, certo la strofa nel contesto della poesia rivela un maggiore sforzo e svolge troppo da vicino, e senza una piú profonda mediazione poetica, un preciso pensiero del 17 gennaio del ’26 in cui il Leopardi diceva:
Che cosa è la vita? Il viaggio di un zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso per montagne ertissime e luoghi sommamente aspri, faticosi e difficili, alla neve, al gelo, alla pioggia, al vento, all’ardore del sole, cammina senza mai riposarsi dí e notte uno spazio di molte giornate per arrivare a un cotal precipizio o un fosso, e quivi inevitabilmente cadere. [4162-4163][18]
Ma questa parte piú faticosa trova poi la sua giustificazione e la sua soluzione piú alta nello slargo dei versi finali, nella rappresentazione cosí squallida della morte come cessazione di ogni vita dove il Leopardi attraverso la voce della ragione vuol ribadire la mancanza di ogni possibilità di vita ultraterrena. Poi la strofa è siglata con un tipo di clausola (su cui Leopardi in questa poesia piú volte ritorna) di estrema semplicità raggiunta attraverso una squisita eleganza, che contiene nelle affermazioni fondamentali del pastore un lieve movimento quasi di amara ironia.
La terza strofa fu aggiunta da Leopardi in un secondo momento. Inizialmente infatti il Canto notturno doveva esser racchiuso solo nella prima, seconda e quarta strofa; poi a queste furono aggiunte la terza, la quinta e la sesta. In questa strofa Leopardi sentí come il bisogno di portare piú avanti, al di là della similitudine della seconda strofa, e con una voce complessivamente piú sicura, il lamento del pastore, che con un tono melodico da alta nenia malinconica viene a delineare piú da vicino il sentimento negativo della vita che fin dalla nascita comporta per l’uomo fatica, pena, tormento, rischio di morte:
Nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
altro ufficio piú grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale. (vv. 39-60)
È una strofa in cui piú si avverte il confluire di echi dalla Bibbia e dei testi piú pessimistici della tradizione antica che riaffiorano nella memoria leopardiana dalle letture giovanili. Tutto è intonato al sentimento grave e insieme melodico, di alto compianto sulla sorte dell’uomo. Non a caso campeggia ripetuta tre volte la parola “consolare”. Talmente triste è la vita dell’uomo che il “consolare” è l’unica funzione che i genitori possono esercitare nei confronti dei figli che essi, spinti dalla legge di natura, hanno posto in una vita cosí miserabile. Nel finale ricompare, dopo le tipiche forme interrogative, piú complessa ed elaborata che nella seconda strofa, la clausola in cui la voce del pastore intesse in modo semplice ed elegante un incontro di credulità e di incredulità, di colloquio affettuoso verso la luna e insieme di consapevolezza della indifferenza della natura:
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sí pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
star cosí muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Cosí meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male. (vv. 61-104)
Inizialmente concepita, come risulta dagli autografi, quale strofa finale del canto, al cui culmine il pastore portava l’amara verità sperimentata in se stesso: «a me la vita è male», questa quarta strofa è di grande bellezza e complessità e al suo centro vibrano le domande piú intense. Inizialmente il pastore si rivolge alla luna attribuendole caratteristiche di pensosità, di consapevolezza del significato delle cose. Nelle delicate espressioni che chiudono questo primo movimento, Leopardi riconferma attraverso la figura del pastore (che, pur presentato come individuo solitario, astorico e asociale, ha tuttavia il senso di certi fondamentali rapporti), la sua intuizione profonda: ciò che ci sconvolge nel pensiero della nostra morte non è tanto il nostro venir meno ma la lacerazione di un rapporto, il «venir meno» appunto «Ad ogni usata, amante compagnia», dove quell’«amante» meglio che “amata”, indica che con la nostra scomparsa noi veniamo a portare dolore negli altri, in coloro che ci amano.
Ma mentre il pastore attribuisce alla luna la capacità di sapere il perché delle cose, mette in rilievo proprio quelle parole (come «frutto», «Uso») che egli nega poi nella sua conclusione pessimistica; la vita è senza nessuna ragione, utilità, frutto, scopo, e lo stesso variare delle stagioni porta con sé un continuo, inutile e monotono ritorno che ha al suo fondo il dolore, il patimento (il gelo eccessivo o l’ardore dell’estate). In questo movimento, in cui Leopardi riprende, ma in senso rovesciato e interamente pessimistico, quel tema del variare delle stagioni su cui tanto aveva insistito l’arte del Settecento (si pensi alle Quattro stagioni di Vivaldi, alle Stagioni di Haydn, a tante poesie dell’Arcadia) per ritrovare appunto nel loro regolare ritorno un incentivo di letizia e di ottimismo, compare l’unico barlume luminoso di questa poesia; poesia dai toni certamente piú spenti, piú gravi, piú malinconici rispetto alle altre poesie di questo periodo, in cui la dolcezza nasce sempre dalla malinconia.
Alla metà della strofa la meditazione e contemplazione del pastore non è piú diretta alla terra e alla sola luna, ma a tutto il cielo, a tutto l’universo. Prende cioè avvio, attraverso le nuove domande del pastore, quel motivo cosmico su cui tante volte si è insistito per la poesia leopardiana. Impiantata su questi nuovi interrogativi la strofa poi seguita a svolgersi nella certezza negativa del pastore di fronte alla luna. Forse la luna sa la ragione delle cose, ma il pastore sa solo questo, che tutto ciò non ha significato né scopo per lui e sa soprattutto che la vita per lui è un male; e su questa certezza, affermata senza la cautela del “forse” (che Leopardi usa in questa poesia quando sembra attribuire qualche valore alla vita, magari di altri esseri) si chiude a poco a poco la strofa restringendo sempre piú i margini della desolata consapevolezza del pastore.
Dopo la prima stesura che si concludeva con la quarta strofa (ma sempre nel periodo di composizione concluso il 9 aprile 1830) il Leopardi sentí il bisogno di aggiungere altre due strofe che si rivelano essenziali. In esse il pastore risale dalla sua amara verità («a me la vita è male») a quell’unica compagnia di viventi che ha con sé, alla sua greggia; esprimendo una dissimilazione tra il proprio stato e quello della greggia, che non gli appare dotata del sentimento della noia, del tedio che è invece il sentimento fondamentale e terribile dell’uomo. Ritorna cioè in questo canto quel grosso tema filosofico che Leopardi aveva piú volte illustrato nello Zibaldone o, per esempio, nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, e di cui si può trovare una precisa definizione in questo pensiero dell’8 marzo del ’24: «Or che cosa è la noia? Niun male né dolore particolare (anzi l’idea e la natura della noia esclude la presenza di qualsivoglia particolar male o dolore) ma la semplice vita pienamente sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all’individuo, ed occupantelo» [4043][19].
La noia, come qui dice il pastore leopardiano, si ha proprio nel momento in cui non c’è né piacere né dolore, non c’è né attività né riposo. La quiete qui non ha nulla di idillico, ma è il momento in cui proviamo il sentimento peggiore: in questa quiete, in questo riposo l’uomo prova quell’angoscia esistenziale, quella noia, quel tedio che è un motivo cosí fondamentale in Leopardi, presente del resto in tanti altri spiriti romantici del suo tempo. La strofa è quindi tutt’altro che aggiuntiva ed è tutt’altro che idillica in senso convenzionale, anche se vi si parla di gregge e pastori, perché essa in realtà, soprattutto nella sua ultima parte, serve a portare in luce questo grande tema leopardiano:
O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma piú perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sí che, sedendo, piú che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale? (vv. 105-132)
La voce del pastore, nelle forme pacate e melodiche del canto, porta ad affermare delle verità supreme, come questa definizione della noia che è il momento in cui non c’è né desiderio né dolore troppo forte, ma puro senso di esistere.
L’ultima strofa, piú breve, concepita da Leopardi a imitazione dei congedi della canzone ballata, stringe i temi fondamentali e li porta a un’ipotesi assurda. Il pastore, quasi cercando un compenso dell’immaginazione, pensa che egli potrebbe essere felice se fosse sottratto alle sue condizioni normali e avesse la possibilità di volare nel cielo e di contare le stelle a una a una. Ma su questa ipotesi piú immaginosa egli viene poi a confermare la sua verità fondamentale e universale, che l’unica cosa che l’uomo sa è che in qualsiasi forma, in qualsiasi stato tutti gli esseri siano, uomini o animali, sono tutti destinati a una vita infelice:
Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
piú felice sarei, dolce mia greggia,
piú felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dí natale. (vv. 133-143)
Nel finale, con questo gusto delle ripetizioni cosí tipico del Canto notturno, Leopardi raddensa gli unici interlocutori, seppur muti, di questo canto, la greggia e il pastore, che costituiscono i termini della scena stessa in cui la poesia si svolge, a dare un’inclinazione dolce e pacata. La poesia viene a concludere, pur attraverso le forme caute del canto (i «Forse» che valgono in certo modo sia per le certezze che per le incertezze), su questa verità piú universale che stringe insieme tutti i viventi.
Ed è su questo lamento esistenziale del Canto notturno, compiuto il 9 aprile 1830, una data che è vicinissima a quella, il 29 aprile dello stesso anno, in cui Leopardi abbandonò definitivamente Recanati, che si conclude il periodo recanatese.
Il Canto notturno rappresenta l’ultima grande prova della poetica del periodo pisano-recanatese, l’estrema possibilità di quella poetica di accogliere in sé contenuti tanto profondi e impegnativi.
Al di là del Canto notturno quella poetica che aveva fruttato tanta grande poesia (e non perciò l’unico tipo di grande poesia del Leopardi) si esaurisce e, dopo un lungo intervallo, viene sostituita dalla nuova poetica iniziata dal Pensiero dominante e conclusa dalla Ginestra.
1 Cfr. A. Monteverdi, Una foglia, «Civiltà Moderna», n. 6, 1939, pp. 1-12, poi in Id., Frammenti critici leopardiani cit., pp. 49-63, con una Poscritta (1965), pp. 63-66.
2 Tutte le opere, I, p. 45.
3 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 29-30.
4 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 31-33.
5 Tutte le opere, I, p. 117.
6 Tutte le opere, II, p. 1199.
7 Tutte le opere, II, p. 1222.
8 Tutte le opere, II, p. 1228.
9 Tutte le opere, II, p. 1231.
10 Tutte le opere, II, p. 1236.
11 Tutte le opere, II, p. 1233.
12 Le Lamentazioni ossieno le Notti d’Odoardo Young cit., II, p. 24. Per questi rapporti con la poesia settecentesca cfr. W. Binni, «Leopardi e la poesia del secondo Settecento» cit. Sulle versioni younghiane si veda W. Binni, «Le traduzioni preromantiche», in Preromanticismo italiano cit., pp. 113-139.
13 «Ma dimmi, o bella luce, ove t’ascondi / Lasciando il corso tuo, quando svanisce / La tua candida faccia? Hai tu, com’io, / L’ampie tue sale? o ad abitar ten vai / Nell’ombra del dolor? Cadder dal cielo / Le tue sorelle? o piú non son coloro / Che nella notte s’allegravan teco?» (Dartula, vv. 11-16).
14 (Passano la notte assisi su una pietra a guardare la luna e a improvvisare parole assai tristi su arie che non lo sono meno). Tutte le opere, II, pp. 1189-190.
15 Tutte le opere, II, p. 1219.
16 Cfr. A. Monteverdi, La composizione del Canto notturno, «La Rassegna della letteratura italiana», n. 2, 1960, pp. 207-217 (ora in Id., Frammenti critici leopardiani cit., pp. 103-221).
17 Le varianti del Canto notturno si leggono in G. Leopardi, Canti, ed. critica a cura di F. Moroncini cit., pp. 555-562.
18 Tutte le opere, II, p. 1092.
19 Tutte le opere, II, p. 1044.